Sul perché, maggio 2017

Eva è morta fra le mie braccia, mentre mio marito stringeva entrambe e la tata cantava la canzone più dolce che io abbia mai ascoltato.
Non vedevo il volto di mia figlia, solo la fronte, ne ho ascoltato i respiri sempre più lontani e leggeri, fino a che si sono arresi.
Ho faticato a stendere eva nel letto, a sciogliermi da quell’abbraccio, il più potente della mia vita, ma quando l’ho fatto, ed ho osservato il suo volto, si era trasformata. I lineamenti sono immediatamente tornati la stupefacente perfezione dei primi anni della sua breve infanzia, il sorriso a metà della sua espressione più vera, metà sorridente e metà lontana, come se una sola dimensione non le fosse mai stata sufficiente.
Il letto era intriso del suo sangue, ma il suo volto era perfetto, intatto e immortale.
L’abbiamo lavata, anche se la sua pelle era morbida e profumata dal bagno lunghissimo che aveva voluto e goduto poche ore prima.
Le ho messo l’abito blu del compleanno, l’aveva comprato con la zia Tata, la sua complice di moda. Il tessuto era macchiato di pittura, non sono mai riuscita a farla venir via. Ho trovato fosse perfetto, per un’artista come lei.
Quando il giorno dopo è arrivata la bara bianca, abbiamo sostituito i rasi sintetici con lenzuola di cotone cucite dalla mia nonna Maria. Lenzuola da bambina, bianche con le nuvole colorate, ormai sbiadite da 40 anni di lavaggi.
Fra le mani, coperte dal lenzuolo, mio padre le ha posto un ciondolo che eva amava molto, fatto da un artista amico di famiglia (Antonio Paradiso, fa sorridere vero?). Un colombo in volo.
Nei due giorni in cui è stata in casa, sul suo letto, la bara di eva si è riempita di fiori, disegni, lettere. Davide le ha messo sul fianco un peluche e poi è andato dai cugini.
Sono impazzita di angoscia pensando a come sarebbe stato veder posare il coperchio, lasciarla poi a Lambrate in attesa della cremazione, portare le ceneri al cimitero. È stato dolore allo stato primitivo, ma non orrore. Eva non era più lì, la sento accanto a me, l’ho percepita in ogni soffio di vento quando coi bimbi siamo andati ad origlio e Davide ha fatto scivolare nel lago un girasole della sua corona, la sento in ogni immagine poetica, in ogni fiore ed in ogni possibilità.
Ed in ogni lacrima ed urlo di rabbia, di impotenza, di rimorso. Lei mi amava con tutti i difetti che ben conosceva e subiva.
Mio figlio si arrabbia perché piango (ce l’hai un figlio, no? E allora accontentati! Smettila di piangere). Io lo stringo e scoppio d’orgoglio per questo piccolo cavaliere dalla lucente armatura.
Con eva e tutta la tribù avevamo programmato un viaggio ad Amsterdam, per il 25 aprile, a vedere i tulipani.
Davide ora vuole andare a camminare, non in Olanda.
Camminiamo ogni giorno, ci prepariamo al cammino di Santiago.
L’altro giorno abbiamo fatto il giro del parco della Breggia. Mi ha colta quasi di sorpresa la consapevolezza che anche Eva, per due volte, aveva fatto fatto tutta la strada. Una fatica notevole, il nostro passo adattato al suo, ma che soddisfazione, in cima.

(ben prima di aprire il blog, avevo scritto queste parole ad una persona che penso sia stata vicina a mia figlia, nella sua battaglia. Oggi le trovo corrette, per provare a spiegare cosa c’è alla radice di questi articoli…)

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