Treblinka, 29.10.2019

In realtà questo dipinto l’ho visto il giorno seguente ad Auschwitz, ma la geografia qui ha poco valore.

Arrivare a Treblinka, da Cracovia, richiede molto tempo. Ritornando all’origine, sono arrivata a Treblinca partendo da casa ieri mattina alle 6, con diverse ore di ritardo del volo, arrivo in camera che faceva buio e cena a letto, leggendo. Anche stamattina sono partita alle 6, in treno, per arrivare a Malkinia alle 12,30.

Un viaggio lungo e silenzioso, il motivo per il quale ho voluto farlo da sola.

Perché ne scrivo su questo blog, che in teoria dovrebbe parlare di gite in montagna? Sento che il motivo per il quale avevo iniziato a scrivere qui ha perso per strada identità e slancio. Non so cosa ne farò prossimamente di queste pagine, ma se alla fine rimarranno in una qualunque forma, un ricordo per Davide o un’immagine che condivido con chi vive in lutto, credo che sia giusto possano contenere anche parole di questa giornata.

Non certo per le ore ed i chilometri di cammino fatti dove sorgeva il campo di Treblinka, quanto perché in quei passi sulla sabbia mescolata alle ceneri di almeno 800000 persone sterminate nel lager, forse sta la risposta alla domanda di Davide. Semplice e legittima: esattamente, mamma, cosa vai a fare mamma da sola in Polonia?

Non lo so ancora. So cosa ho fatto oggi, ma il perché resta spoglio, quindi la risposta non può dare soddisfazione. In parte il perché è quella necessità squisitamente umana di  guardare la propria Ombra, in certi momenti della vita, anche l’Ombra collettiva. Il resto è un nodo di dolore che di giorno in giorno si stringe.

Il campo di Treblinka si trovava  a pochi km dalla stazione ferroviaria d Malkinia.

Sul finire della guerra è stato raso al suolo, ciò che ora lo simboleggia è costituito fondamentalmente dal perimetro, da una successione di massi squadrati orizzontali dove c’era la rampa e da un grande monolite dove erano i forni, circondato da un cimitero di 17000 pietre aguzze in verticale, su alcune delle quali risalta il nome di un villaggio o di una città. Poche le pietre con nomi di persona, si riconosce subito quella di Janusz Korczak, il medico ebreo che scelse di andare incontro a morte certa con i bambini orfani dei quali si prendeva cura.

Fra le tante cose che ho letto, ma non riesco ora a recuperare nei miei scaffali in rivolta, la descrizione di questi bambini, ordinati, puliti, coi loro abiti migliori, accompagnati a morire dall’amore e dalla dignità del dr. Korczak mi si è incisa dentro.

Altri nomi accompagnano la visita su una benda bianca che si dipana lungo il bosco, aggrappata agli alberi testimoni di quegli anni.

Teofila, Zygmut, Zyst, Henda, helena, Szulamt, Szejwa, Sara, Hanna, Gela, Fejya, Herszel, Estera, Doba, Debora, Gucia, Cwi, Cypora, Chaskiel, Jarow,

 

La storia supera l’immaginazione, e durante la guerra, il giorno di Natale del 1942, i nazisti costruirono una falsa stazione ferroviaria a Treblinka. L’illusione che il viaggio non fosse finito.

La prima cosa che mi ha stupita all’arrivo a Malkinia è il fatto che, in un contesto che mi è parso desolato, non ricco né prospero, stiano costruendo una stazione nuova, dal design moderno, linee pulite, colori chiari, forme armoniose.

Che valore ha, per chi abita qui, rifare la stazione? Cosa simboleggia per i figli i nipoti di chi ha vissuto gli anni dell’occupazione tedesca e forse prova vergogna per quell’insistente “non sapevo”? Forse non ci pensa, come non ci si sofferma troppo col pensiero sui corpi dispersi nel mediterraneo che, proprio come hanno fatto lungamente le foreste di questa zona, ci vengono rimandati in oggetti e reperti dalla loro sepoltura.

Eppure lo sterminio di massa della seconda guerra è il male, l’assurdo, il banale orrore del’abisso a cui l’uomo può arrivare. Nessun paragone tiene, nessun contraltare lo bilancia.

Il paesaggio è verde, boscoso, vivo.

Per arrivare al Museo si può prendere solo il taxi, nessun autobus ci arriva. Si paga solo in Szloty, la maggior parte delle scritte sono in tedesco, polacco ed ebraico, il materiale in inglese si riduce a due pieghevoli in bianco e nero mal tradotti, non c’è bar né distributore d’acqua (non avendo fatto colazione a Cracovia ho cercato di spiegare al tassista che prima volevo fermami a prendere un caffè, ma è stato impossibile intendersi, era evidentemente inconcepibile uscire dal percorso turistico prestabilito).

Al di là dei discorsi generali, io ho apprezzato per la mia visita i momenti di completa solitudine, il silenzio interrotto solo dai canti di una scuola ebraica (in qualche cosa mi hanno ricordato la melodia che ha cantato per noi Eleonora, la notte che Eva è morta), ed il cielo grigio, minaccioso.

Nello zaino oltre alle cose solite, portafogli, libro, quaderno, penne e giacca a vento, avevo una bustina di Eva. Una di quelle bustine trasparenti da spiaggia che regalano in profumeria quando comperi i solari di marca.

Eva ha sempre amato borse, borsette, cofanetti, scrigni, cassetti. Custodi di mondi di giochi e fantasia che continuano a stupirmi perché ne trovo sempre di nuovi.

In quella particolare bustina erano conservati vari tesori del mare. Conchiglie, sassolini, frammenti di vetro levigato, insomma, tutto ciò che trovava bello e importante da portare a casa, da usare per le sue creazioni, da regalare.

Quella stessa bustina è venuta con noi lungo il Cammino di Santiago, due anni fa. Davide ha deposto conchiglie e sassi lungo la strada, ma non era vuota.

Oggi l’ho svuotata.

Un momento di raccogliemmo ed un lascito su ogni masso che simboleggia il perimetro del campo. Insistente la domanda impossibile del perché ci si trova da una parte o dall’altra del filo spinato, nella vita. I Diari di Etty Hilsum in questi anni mi hanno aiutata a spostare la prospettiva dal filo spinato, ma la domanda resta senza risposta. Esattamente come resta senza risposta l’altra, quella impossibile da non farsi, di fronte alla storia, cosa avrei fatto io dentro? E fuori?

Il percorso è lungo vari chilometri, ovviamente non ero concentrata ad orientarmi, è stata una sorpresa tornare alla scultura che rappresenta l’ingresso del campo ed accorgermi che la bustina era vuota.

In realtà rivoltandola ho trovato due schegge di vetro verde ed un sassolino bianco. Li ho posati sul monumento che rappresenta la graticola, termine volutamente disturbante, davanti al quale sono rimasta a meditare.

Non so quanto a lungo sono rimasta seduta a gambe incrociate sull’erba, con gli occhi chiusi e la mente vuota, mi sono alzata quando ho capito che il privilegio della solitudine completa era finito. Dopo pochi passi ha iniziato a diluviare. Ora sono in treno, il viaggio è lungo, ma i miei abiti si sono asciugati.

Rajzel, Ita, Andzia (Angela), Rachel, Chana, Zipa, Jiliusz, Hadassa, Mosze, Michael, Szlomo, Mendel, Mordechay, Adam, Szmuel.

Vicino a Varsavia, h17.40